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Una mia intervista di 4 anni fa…

Per Elisabetta: un ricordo dal passato. Splendida intervista (per merito delle risposte). Basta leggerla per capire lo spessore di Elisabetta. (Barbara Pavarotti)

Grazie Barbara Pavarotti per avermela riproposta

ELISABETTA TRENTA
Ma quanto è andata lontano questa ex allieva delle Maestre Pie Venerini di Velletri, dove ha frequentato le scuole medie. Dalla cittadina dei Castelli Romani è andata in Russia, Canada, Iraq, Libia, Libano, Marocco, Algeria, Giordania, Kuwait, Palestina… Tutti paesi in cui ha lavorato come esperta di cooperazione internazionale e di sviluppo locale e governance oltre che di intelligence e sicurezza.
Elisabetta ha 46 anni, è una program manager di progetti di cooperazione internazionale e dal 2008 è anche capitano della Riserva Selezionata dell’esercito, ovvero è entrata a far parte di un bacino di professionisti civili, nominati ufficiali della riserva, che possono essere richiamati in servizio per integrare le professionalità già presenti tra i militari di carriera. Per leggere il suo curriculum ci vogliono ore: laurea in scienze politiche ed economiche, corsi e pratica di giornalismo ed iscrizione nell’albo come pubblicista, vari master e corsi su sicurezza, sviluppo, terrorismo, diritto dei popoli, diritto internazionale umanitario. E poi il lavoro: per il ministero della Difesa, in Libano, e degli Esteri; consigliere politico di vari generali in Iraq, a Nassiryah e membro del gruppo di sostegno per la ricostruzione. Responsabile di vari progetti: per la riduzione degli armamenti illegali in Libia, per la conservazione del patrimonio culturale e archeologico in Palestina e Giordania. E poi le docenze, le consulenze. Il suo ultimo progetto la vede in Libia dove segue il reintegro di ex combattenti da inserire in un corpo di polizia turistica per i siti archeologici.
Con questi precedenti ti aspetti una sorta di Lara Croft e invece hai di fronte una donna dal sorriso dolcissimo e dagli occhi splendenti che quando parla incanta e cattura.
Elisabetta, cominciamo da lontano, dove forse tutto è iniziato, quella scuola media a Velletri, le sue Maestre. Cosa le hanno dato?
Credo di aver maturato nel periodo delle scuole medie la curiosità per scoprire e capire il diverso da me, lo sguardo critico e la voglia di cambiare il mondo, di fare qualcosa per migliorare la vita degli altri. Durante quei tre anni importanti dell’adolescenza, suor Lea, la professoressa Romano, suor Giovanna Valdarnini, hanno contribuito a far maturare in me il desiderio di “fare” qualcosa in difesa dei diritti, delle persone più fragili, delle donne, dei bambini, dei popoli più sfortunati.
Da ragazza voleva fare la missionaria, poi le scelte sono state altre. E’ stata in zone di guerra, a contatto con realtà dolorose. Forse col suo lavoro è riuscita a legare in qualche modo i due percorsi? 
Ho tentato di farlo, non so se ci sono riuscita sempre. Il mio approccio ai progetti di sviluppo è sempre basato sulle persone, sui “beneficiari” in termine tecnico, che devono trarre giovamento dalle azioni intraprese dal progetto. Può sembrare un discorso scontato, ma non è così. Molto spesso anche la cooperazione internazionale può diventare semplicemente un lavoro da cui trarre uno stipendio. Ecco: questo ho sempre cercato di evitarlo. Se posso realizzare qualcosa di più per le persone, lo faccio, anche a scapito della riduzione dell’ efficienza finanziaria del progetto. Fortunatamente lavoro in una società, SudgestAid, che ha il mio stesso stile…ça va sans dire : non siamo ricchi!
C’è qualcosa che contraddistingue gli italiani rispetto ai militari di altre nazionalità nelle missioni di pace? 
Sono andata in Iraq come esperto del Ministero degli affari esteri come Political Advisor del Comandante di Antica Babilonia dopo aver sfilato per le strade di Roma con la bandiera della pace. Ho pensato “vado, vedo e poi deciderò in coscienza se rimanere o no” e, per la prima volta nella mia vita, una volta arrivata a Nassiriya, mi sono sentita fiera di essere italiana proprio perché vedevo le differenze del nostro esercito rispetto agli altri. Andare in una zona di guerra per un cattolico è sempre difficile, si pensa che i soldati vadano ad “uccidere”. Beh, io stavo con soldati che ricostruivano concordando ogni singolo progettino con le autorità locali, che avevano come obiettivo quello di supportare la rinascita della società civile e l’ empowerment delle istituzioni locali, che formavano la polizia locale e che, di fronte ad un immediato pericolo per il quale altri eserciti avrebbero sparato senza pensare, non lo facevano. Talvolta rischiando la loro vita. Insomma, esiste un’Italian way alle missioni di pace, una capacità innata degli italiani e quindi anche dei soldati italiani, di entrare in contatto con le popolazioni locali, rispettandole. Con questo non dico che i soldati siano missionari. Esistono degli obiettivi militari, perseguiti con grande professionalità, nel rispetto delle popolazioni civili. Insomma, credo che gli italiani siano i migliori soldati di pace.
Le donne di ogni paese che lei ha incontrato: umiliate e offese dalle guerre, dalla povertà, eppure resistenti a ogni sopruso e a ogni fatica. Sono loro a suo avviso le vere portatrici di pace?
Lo sono perché portano vita e la vita ha bisogno di pace per fiorire. In Iraq, in Libano, in Libia, le associazioni di donne partecipano attivamente ai processi di riconciliazione. Spesso pensiamo alle donne mediorientali come soggetti passivi, costretti a coprirsi con vari tipi di velo e senza un ruolo importante nella società. Sicuramente c’è molto da fare in difesa dei loro diritti, ma ho conosciuto donne irachene che lavorano, fanno politica e hanno 5 figli, cosa che da noi è molto rara. Siamo sicure che non abbiamo anche noi qualcosa da imparare dalla loro società? Per esempio, abbiamo perso l’importante ruolo della famiglia, anche allargata, come sostegno alla vita dei suoi membri.
Se dovesse fare un bilancio di tutti questi anni in paesi segnati da conflitti e tensioni: ha trovato più crudeltà o amore? E solidarietà? 
Mi hanno sempre accusata di essere “ottimista”, e infatti tendo a vedere molto più amore e solidarietà che crudeltà, ma è vero, “ho gli occhiali rosa”.
L’esperienza che più l’ha amareggiata. Il ricordo più doloroso. 
L’attentato di Nassiriya del 27 aprile 2006, quando il secondo veicolo di un convoglio di quattro mezzi dei Carabinieri, partito dalla base di Camp Mittica, è saltato su una “carica cava”. Sono morti cinque militari italiani il maggiore Nicola Ciardelli, che conoscevo, i marescialli dei Carabinieri Carlo De Trizio, Enrico Frassanito e Franco Lattanzio, e il caporale della polizia rumena Bodgan Hancu. Eravamo al briefing mattutino con il Generale. Abbiamo avvertito il botto. Dopo un secondo qualcuno è entrato con una velocità ed una faccia che non ammetteva domande. Il generale è scappato in sala operativa e nessuno di noi ha più parlato. “O mio Dio”…“ A chi sarà toccato?”… “Potevo essere io”…”Devo chiamare a casa prima che si interrompano le comunicazioni”…Sono riuscita a farlo, ho detto solo “sto bene, vi ho chiamato, sto bene”… e poi non è stata più la stessa cosa. Il giorno dopo, parlare con gli iracheni, quelli che dovevo aiutare…è stato un peso, era difficile separare “gli attentatori” dagli altri. Ma gli altri erano vittime come noi. La notte l’ho passata nella tenda della chiesa, a pregare e pensare davanti alle prime tre bare (due dei marescialli non erano morti immediatamente). Vale la pena tanto dolore?
L’esperienza che le ha dato maggior soddisfazione, che le rimarrà sempre nel cuore. 
Quando riuscivo a far portare in Italia qualche bambino per essere curato. La distribuzione di generi alimentari agli sfollati nel campo di Alfajir.
Lei crede in Dio. L’ha trovato nelle dure realtà dove ha svolto le sue missioni?
Sempre e posso dire che Dio non mi ha mai diviso dagli altri. E’ un punto di partenza. Mi rispettano perché credo in Dio.
Un missionario ha detto: “Ci sono cose che possono vedere solo occhi che hanno pianto”. E’ d’accordo?
Penso che sia più facile comprendere le difficoltà degli altri quando le si è provate, però esiste una sensibilità, una compassione umana, che è indipendente dall’esperienza. Dobbiamo coltivarla
Cambierebbe qualcosa della sua vita?
Mi piacerebbe aver avuto dei figli ma bisogna ammettere che alcune cose non dipendono da noi.
Lei è sposata. E’ difficile conciliare il matrimonio con un lavoro come il suo?
Non quando si ha un marito aperto di mente, generoso ed ottimista come il mio e poi ci siamo conosciuti in Iraq, sapeva già quale fosse il mio lavoro. E’ una persona tranquilla, di grande supporto. Qualche volta l’ho chiamato dalla Libia dicendo che sentivo sparare e lui diceva semplicemente “dormi con gli angeli!”
C’e’ un progetto che ancora non ha fatto e vorrebbe tanto realizzare? Un sogno professionale ancora irrisolto della sua vita? 
Qualche anno fa ho fatto attività politica, sono stata assessore e poi consigliere comunale a Velletri. Non è stata una bella esperienza e per un po’ ho lasciato la politica. Ora mi sto riavvicinando ma non ho ancora trovato il partito o movimento “ideale”.

Mi piacerebbe un giorno entrare in Parlamento. Credo che la Politica sia “l’arte più importante” e mi dispiace che in questi ultimi anni sia diventata invece solo uno strumento per fare il vantaggio di pochi.

 

 

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