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Deterrenza o Escalation, qual è il limite?

Nella guerra tra Russia e Ucraina sembra che il punto di non ritorno sia stato superato

Deterrenza ed escalation

Deterrenza ed Escalation, qual è il limite tra l’una e l’altra? Difficile dirlo, difficile prevedere il momento in cui un conflitto possa passare da convenzionale a strategico. Ma una cosa è certa, i toni delle minacce nella guerra Russia Ucraina stanno crescendo, pericolosamente, ogni giorno di più e il mondo si sta mettendo su una via senza ritorno.

Da: https://eugensystems.com/wargame-european-escalation/

Da qualche settimana le forze ucraine riguadagnano territori. Hanno riconquistato Lyman, nel Donetsk, una delle regioni annesse da Putin, procedendo verso est e verso sud (Kherson). I russi rispondono con missili e droni esplosivi.

Tutti felici per questo? Certo, siamo soddisfatti del fatto che l’Ucraina riesca a reagire e a difendere i propri territori, ne ha diritto, ma, attenzione, mettere all’angolo Putin significa avvicinarsi sempre più alla possibilità che decida di utilizzare l’arma nucleare.

Anche un attacco diretto dall’Ucraina verso la Russia potrebbe causare escalation. E se quello del 14 ottobre a Belgorod – territorio russo sul confine ucraino – è stato definito un attentato terroristico fatto da due cittadini della ex Unione Sovietica, difficilmente potrebbe non essere definito come un attacco alla Russia quello che fosse svolto con le armi a lunga gittata, che USA e alcuni paesi europei vogliono ancora inviare all’Ucraina.

Qualcuno dice che evidenziare il pericolo nucleare significhi cadere nel gioco di Putin, qualcun altro sostiene che Putin in nessun caso si fermerà e che il suo obiettivo sia rilanciare un nuovo sogno imperiale. Dicono che voglia scrivere il proprio nome nella storia e che voglia la terza guerra mondiale.

Vero o no che sia,

Di fronte a pericoli così grandi, anche se poco probabili, è necessario che le nazioni occidentali facciano una sola cosa: favorire la riapertura di dialogo e trattative tra Russia e Ucraina.

L’escalation verbale

Lo ha detto anche il direttore della CIA Bill Burns. “Putin adesso si sente con le spalle al muro e può essere piuttosto pericoloso e sconsiderato”.

E’ ora di capire che non esiste una possibilità di vittoria militare di questa guerra.

Occorre ricercare la pace. E’ già troppo tardi forse, ma bisogna farlo. Ma torniamo ai fatti.

In seguito alla riconquista di Lyman, il leader ceceno Ramzan Kadirov, ha inviato un messaggio su telegram invitando Mosca a prendere in considerazione l’utilizzo di armi nucleari a bassa intensità per evitare sconfitte future. Non è stato il solo a parlare di arma nucleare, lo hanno fatto anche Dmitry Medvedev, ex presidente, e lo stesso Putin che ha dichiarato che non stava bluffando quando ha detto di essere disponibile ad usare tutti i mezzi disponibili per difendere l’integrità territoriale della Russia, incluse le nuove regioni.

Putin e Medvided (da: https://jyllands-posten.dk/international/article4284251.ece)

D’altra parte, lo aveva affermato già all’inizio del conflitto “Chiunque cerchi di ostacolarci o di creare minacce per il nostro paese e il suo popolo, deve sapere che la risposta russa sarà immediata e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia”.

Zelensky, da parte sua, ha minacciato il popolo russo che moriranno tutti se non lasceranno Putin, mentre in una intervista Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, ha dichiarato che “Qualsiasi uso di armi nucleari comporterà conseguenze serie per la Russia“, e che  “qualsiasi attacco deliberato contro infrastrutture critiche della Nato riceverà una risposta ferma e compatta”.

Zelensky e Stoltemberg (da : https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/stoltenberg-zelensky-crimea-negoziati-nato-guerra-ucraina-russia-hjrgf2wx)

Infine, il Parlamento Europeo, in una relazione sull’escalation russa in Ucraina, ha chiesto di preparare una risposta rapida in caso di attacco nucleare russo e, ciliegina sulla torta, il Presidente Biden ha dichiarato che Putin non scherza quando parla di uso potenziale dell’arma nucleare tattica, o di quella biologica o chimica, considerato il basso livello del suo esercito.

La dottrina nucleare di Putin

D’altra parte basta leggere la dottrina nucleare di Putin (Decreto 355 del 2 giugno 2020 “fondamenti della politica statale della Federazione russa nell’area della deterrenza nucleare”) per capire che esiste una regola per il “launch on warning” per la quale Mosca può lanciare un ordigno atomico al solo sospetto di un attacco nucleare, anche in assenza di una conferma.

Gli altri casi di utilizzo sono: l’uso di armi nucleari o altre armi di distruzione di massa da parte di un avversario contro il territorio russo e/o i suoi alleati; azioni intraprese contro il governo russo o le installazioni militari che possano interrompere le capacità di ritorsione militare del paese (includono quindi anche un attacco cyber) o un’aggressione con armi convenzionali che minacci però l’esistenza stessa dello Stato.

Immagine tratta da: https://ilmanifesto.it/la-deterrenza-nucleare-un-genocidio-programmato-da-disinnescare

Il decreto 355 chiarisce anche che la politica nucleare russa è di natura difensiva.

Le forze nucleari servono cioè solo in casi di necessità estrema ad esercitare la deterrenza, per scoraggiare un eventuale attacco nemico contro la Federazione Russa e i suoi alleati, per garantire la sovranità e l’integrità territoriale dello Stato, per prevenire una possibile escalation di azioni militari e/o a far cessare un eventuale conflitto ottenendo condizioni accettabili per la Russia.

Questo ultimo obiettivo soprattutto, richiama la responsabilità di ognuno dei membri dei Governi e delle assemblee parlamentari dei paesi che oggi stanno continuando a votare per inviare le armi all’Ucraina piuttosto che varare vere iniziative per la pace.

Le prospettive di pace assenti

Non si vedono al momento prospettive di pace e mentre in Russia c’è la mobilitazione parziale di 300.000 riservisti, il Consiglio di sicurezza e difesa nazionale dell’Ucraina il 30 settembre ha approvato un decreto, ratificato poi da Zelensky, in cui si afferma che è impossibile negoziare con Putin ed occorre rafforzare la capacità di difesa dell’Ucraina mentre il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha affermato che “raggiungere la pace in Ucraina è impossibile senza soddisfare le richieste della Russia”.

Quello a cui stiamo assistendo è un vero e proprio scontro psicologico che si svolge parallelamente allo scontro militare, in cui le volontà dei diversi attori in gioco (gli stati), attraverso la la minaccia nucleare, cercano di convincere l’altra parte che è inutile andare avanti con il conflitto.

Si utilizza cioè la deterrenza nucleare.

Rispetto agli anni della guerra “fredda”, nella guerra “calda” Russia-Ucraina la potenza atomica è solo una, la Russia, mentre l’Ucraina fa affidamento su un’organizzazione nella quale è tornata a chiedere di entrare con procedura accelerata, la Nato, e sulle potenze nucleari che ne sostengono lo sforzo bellico dall’inizio del conflitto.

Siamo tornati nell’epoca del rischio nucleare o non ne siamo mai usciti? La verità è che le armi nucleari sono sempre state lì, anche negli anni che hanno seguito la fine dell’ex Unione Sovietica, ma nessuno in questi anni ha utilizzato la minaccia del loro uso potenziale per piegare la volontà dell’avversario.

Quanto siamo in pericolo? Le minacce sono vere o soltanto uno strumento psicologico?

Dobbiamo andare a ripescare i principi della strategia nucleare.

Di fronte al pericolo che uno stato usi l’arma nucleare si possono fare quattro cose: distruggere preventivamente la capacità dell’avversario, intercettare le armi atomiche, proteggerci fisicamente dagli effetti delle esplosioni o minacciare la rappresaglia.

La prima azione al momento non è considerabile, la seconda siamo obbligati a considerarla ma potremmo avere due elementi di debolezza tecnologici, il primo è che la Russia potrebbe usare dei missili ipersonici (che noi non abbiamo) impossibili da fermare; il secondo  è che attraverso un attacco cyber a noi non evidenziatosi, il nemico potrebbe essersi impossessato di informazioni strategiche per la difesa europea.

Anche la terza azione possibile, quella di proteggerci dagli effetti delle esplosioni, è impossibile da realizzare per tutta la popolazione considerato l’alto numero di bunker di cui ci sarebbe bisogno.  Però, un Paese che si preoccupi dei suoi cittadini dovrebbe attrezzarsi per proteggerli e dovrebbe quanto meno pianificare anche per il peggio (mentre, intanto, dovrebbe fare in modo che il peggio non arrivi).

Il Bunker antiatomico del Governo Italiano, Monte Soratte. Leggete la storia qui: https://www.startmag.it/mondo/quando-mussolini-saragat-moro-e-andreotti-giocavano-alla-guerra-nucleare-globale/

Ci resta l’ultima opzione, minacciare la rappresaglia, ed è quello a cui stiamo assistendo in questi giorni. L’obiettivo è quello di ricordare a Putin (perché già lo sa) che se lancia il primo colpo, è la fine anche per lui.

Durante la guerra fredda nella Nato vigeva il principio della escalation deliberata, che sarebbe dovuta iniziare con un uso limitato di un arma nucleare tattica, come modo per fermare l’invasione russa. Questo era motivato dal fatto che l’occidente riteneva che le sue forze convenzionali fossero inferiori a quelle del Patto di Varsavia. Finita l’Unione Sovietica, però, ora era la Russia che sapeva di essere tecnologicamente inferiore e dovette cambiare strategia. La dottrina attribuita alla Russia, “escalate to de-escalate”, corrisponde a quella della Nato durante la guerra fredda.

Il significato di “escalate to de-escalate”, frase che non esiste citata effettivamente con queste parole nella dottrina russa, è che sia possibile avviare attacchi nucleari limitati in un conflitto locale/ regionale, fondati sulla convinzione che una tale escalation, da convenzionale a conflitto nucleare, potrebbe sconcertare l’avversario e convincerlo alla pace.

Altri, infine, sostengono che la tecnica russa sia quella dell’escalation control il cui fine è quello di mantenere l’escalation sempre al suo livello minimo accettabile. Effettivamente la guerra in Ucraina sembrerebbe confermare questa tendenza della Russia ad usare gli strumenti che le consentono di tenere le redini del conflitto per poter controllarne la soglia oltre la quale sarebbe incontrollabile. Ma chi sa dire esattamente quando le “redini” possano sfuggire?

Nella consapevolezza che la Russia voglia impaurire e spaccare il fronte nemico, chi può affermare al 100% che Putin non deciderà di andare oltre?

“E allora? che facciamo? Cediamo di fronte alle minacce?” NO, certo. Ma a questo punto si può rispondere: “e allora, se succede quello che non doveva succedere, che facciamo?”

Arrivare a un cessate il fuoco per poi arrivare alla pace

C’è una sola strada ed è quella di arrivare subito a una tregua einiziare un percorso di pace.

Non è vero che sia necessario per forza cedere a Putin.

Ci si può fermare, creare aree cuscinetto, affidare l’area contesa alle Nazioni Unite o a una missione di pace europea, fare, come ha proposto Elon Musk, un referendum vero (non la farsa russa) affidato all’ONU, tornare a ragionare sugli accordi di Minsk per renderli, questa volta, veramente effettivi, trovare degli assetti costituzionali che tutelino e garantiscano i diritti delle minoranze che convivono nella stessa nazione.

Sono tante le possibilità per far ripartire il dialogo.

Non è tutto perso e le trattative non devono significare sconfitta totale per l’Ucraina o per la Russia.

La pace, invece, è la vittoria di tutti.

Il ruolo europeo per la pace

Basta con la retorica e la narrativa per cui chi chiede pace è qualcuno che vuole far vincere la Russia.

Non va neanche specificato da che parte sia la colpa: è chiaro a tutti. Ma la PACE ha un valore a prescindere e che sia l’Europa la protagonista di questo momento, quell’Europa, non unita veramente, che sta rischiando di morire sotto il peso della proprie decisioni “unitarie” e che ha lasciato alla Turchia, nazione non certo “democratica”, il ruolo di promuovere la pace, mentre intanto continua ad espandere la sua influenza e riceve la proposta dalla Russia per diventare un hub del gas.

Serviva l’Ucraina per accorgersi che l’Europa è un progetto ancora non ultimato? Bene, raccogliamo le sfide: le crisi pandemica e la guerra ci hanno dimostrata che solo una dimensione europea forte ci consente di vincere le sfide globali.

Occorre andare con convinzione verso un’unione energetica europea, occorre far partire una politica vera di difesa europea, occorre, soprattutto, una vera politica estera europea, altrimenti a quale testa metteremo in mano la difesa e la tutela degli interessi europei?

Occorre riprendere in mano il sogno degli Stati Uniti d’Europa.

Genova, 26 febbraio 2022. Manifestazione per la pace in Ucraina
Autore: Lilia Alpa
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https://www.peacelink.it/europace/a/49048.html

Andiamo avanti. Quando tutto sembra perduto, quando lungo la strada si offusca l’orizzonte e ci si allontana dal percorso tracciato, bisogna fermarsi, rileggere i valori fondanti di questo percorso unitario e ripartire quindi dalle proprie radici.

L’Europa Unita a questo punto sembra essere l’unico fattore di stabilizzazione internazionale possibile. L’unico faro che possa condurre ad un nuovo ordine mondiale basato su democrazia, confronto e pace. Riprendiamo in mano il sogno!

“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano.”

Dichiarazione Schuman maggio 1950
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#ConflittoScacciaConflitto, l’Afghanistan dimenticato e le crisi che si sovrappongono

#ConflittoScacciaConflitto così, dopo nove mesi dalla fine della ventennale presenza militare in #Afghanistan, l’indignazione e la preoccupazione che ci ha tenuti davanti alle TV ad agosto, mentre assistevamo alla scena di centinaia di migliaia di persone ammassate intorno all’aeroporto di Kabul, sembra essere già dimenticata.

Eravamo esterrefatti nel vedere quegli uomini che sembravano manichini che cadevano dalle ali dell’aereo a cui si erano appesi, terrorizzati dal ritorno dei talebani con cui noi, l’occidente democratico, avevamo fatto dei patti nella ipocrita illusione che li avrebbero rispettati.

Eppure l’Afghanistan è lì con tutte le conseguenze del nostro lungo passaggio e del nostro essere andati via velocemente, fuggiti di fronte a una veloce avanzata di coloro che avevamo combattuto, mentre fingevamo di credere che avrebbero mantenuto parte di quelli che noi abbiamo ritenuto i successi della nostra presenza, soprattutto il progresso della società afghana, l’aumento della scolarizzazione per tutti e una maggiore libertà per le donne.

Oggi il ricordo di quei giorni di agosto sembra già quasi completamente cancellato dall’orrore di un’altra guerra e da un’altra catastrofe umanitaria.

Eppure qualcuno in Italia aveva detto che avremmo dialogato con i talebani buoni. 

Da qualche giorno i talebani hanno emesso un decreto che impone alle donne l’uso dell’ hijab e punisce il marito, i figli o il fratello se non lo indossano. Potrebbero infatti essere portati in tribunale e anche incarcerati per tre giorni.

La decisione viene dal ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio che è titolare anche dei controlli che esegue attraverso 7000 controllori.

“Le donne che non sono troppo anziane o troppo giovani devono coprire il volto a eccezione degli occhi, in rispetto delle direttive della Sharia, in modo da evitare provocazioni quando incontrano uomini che non sono parenti stretti”.

Il decreto dice anche che le donne che non hanno importanti mansioni da svolgere farebbero meglio a “restare a casa”.

Pare sia stato un compromesso tra talebani più moderati e radicali, tutto giocato sulle donne perché dovrebbe consentire di riaprire le scuole superiori femminili, ancora chiuse nonostante la promessa di riaprirle il 23 marzo. 

Si veda qui il video dell’annuncio: https://video.larena.it/video-server/media/video/215966.mp4

I talebani stanno soffocando di nuovo la vita delle donne che giorno dopo giorno perdono i diritti che faticosamente erano stati conquistati.

Intanto oggi il 95% della popolazione afghana, di cui 10 milioni di bambini, è alla fame con il costo della vita e i prezzi del cibo raddoppiati mentre i redditi sono scesi di un terzo e la disoccupazione è esplosa.

Tra l’altro il maggior esportatore di grano in Afghanistan è l’Ucraina e quindi la situazione può solo peggiorare.

Anche la situazione della sicurezza nel paese è al limite. Durante il Ramadan ci sono stati molti attacchi dello Stato Islamico del Korasan contro gli Hazara, gli sciiti, ed è prevedibile che con l’ondata di fame diffusa, l’Isis troverà nuovi adepti, mentre lo scontento per i talebani cresce anche tra chi all’inizio ha sperato che portassero pace nel paese. 

Mentre i talebani faticano a controllare il territorio l’IS-KP cresce e l’Afghanistan torna ad essere il centro del jihadismo.

Il Paese oggi è completamente isolato, nessun Paese ha ancora riconosciuto il governo dei talebani ma alcuni paesi stati come il Pakistan, la Russia, il Turkmenistan e l’Iran hanno ricevuto i loro diplomatici.

In Italia intanto, dopo la prima missione di evacuazione da Kabul degli Afghani che avevano lavorato con noi e ora rischiano la vita, si stava dando attuazione all’evacuazione di altri ex collaboratori e delle loro famiglie.

Ma è arrivata un’altra crisi umanitaria ed il nostro sistema di accoglienza è messo a dura prova.

E così oggi ci sono centinaia di persone che hanno ricevuto da noi una chiamata a recarsi in Pakistan o in Iran per poter poi essere accolti in Italia, che sono al terzo rinnovo del visto, hanno ormai finito i soldi per soggiornare nei due paesi e non sanno cosa devono fare perchè dall’Italia nessuno risponde. Una vergogna!

La guerra in Ucraina ci dimostra ancora una volta che il mondo non sta diventando più sicuro e le conseguenze che questa guerra porterà non solo nel Paese ma in Europa stessa e in tutti i Paesi dove ci sarà la crisi alimentare creeranno ulteriori pressioni sulle nostre coste.

E’ assolutamente necessario una revisione della normativa italiana ed europea sull’immigrazione e sul nostro sistema di accoglienza dei profughi e richiedenti asilo. perché fare annunci buonisti per poi disinteressarsi delle persone è ancora peggio del non fare niente, sopratutto dopo essere stati protagonisti noi stessi delle cause delle crisi umanitarie.

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War in Ethiopia, we cannot stand by and watch. Written by Elisabetta Trenta.

Written by Elisabetta Trenta.

A humanitarian catastrophe is taking place in Ethiopia following a war little of which is said in Italy. As Italians (and Europeans), we cannot stand by, nor limit ourselves to only send emergency convoys. The unity and stability of Ethiopia, the Horn of Africa and the entire Region are at stake. Written by Elisabetta Trenta, former Italian Minister of Defense.

On September 16th, 2018, after more than twenty years of war, the world celebrated when the meeting between Ethiopian Prime Minister Abiy Ahmed and Eritrean dictator Isaias Afwerki marked the outbreak of peace between the two countries, both Italian colonies for a short period of time. Following this peace agreement and for announcing that he would launch liberal reforms in the fields of economics and politics and, therefore, giving concrete evidence of wanting to strengthen democracy, Abiy was awarded the Nobel Peace Prize in 2019. A prize awarded a little too early, but that expressed the enthusiasm for this new phase, which highlighted the moment of stabilization for the whole Horn of Africa and for the Italian relations in an area where we Italians still maintain close collaborations.

In the wake of these reforms, relations between Italy and Ethiopia began to develop faster than in the past, and I personally signed a cooperation agreement in the defense sector with the then Ethiopian defense minister, Aisha Mohammed Musa. The agreement included joint training initiatives, know-how exchange, peace support operations, countering terrorism and violent extremism, military research, development and collaboration in the defense industry.

Obviously, I would not have signed it if I had had only doubt about what happened afterward. At the time, however, we had no indicators regarding the future; on the contrary, we were looking at a country coming from fifty years of absolute monarchy, revolutions, civil war and authoritarianism. The new leader, immediately after taking office, freed political prisoners and journalists, opened to opposing parties and encouraged rebels to disarm; a very long war with Eritrea ended with the word peace and he promised to hold the first free and fair elections in the second most populous country in Africa.

However, in November 2020, President Abiy launched an offensive strike against the TPLF forces (Tigrayan People’s Liberation Front) which he had accused of pursuing insurgent objectives and being traitors to the homeland. What had happened?

From an ethnic point of view, Ethiopia is a very fragmented country with its nine states divided on an ethnic-linguistic basis. The state of Oromia is the most populous one, with approximately 33 million people. Abiy Ahmed belongs to the Oromo ethnicity, which is one of the most marginalized in the country that had not expressed a prime minister since 1991; the Tigrinya ethnic group, on the contrary, although representing only 6% of the Ethiopian population, has always had the prime minister in office.

A further clarification to try to understand the reason of the conflict is that Abiy won the elections, declaring he wanted to favor national unity and create a strong national identity, with the support of the Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), a coalition of which the TPLF was a key part. However, in order to further consolidate his position within the coalition, after the election Abiy established the Prosperity Party, easier to control, bringing together all the constituents except the TPLF.

The crisis with the TPLF worsened after Tigray held the regional elections in September 2020 deeming that the delay of the national elections due to the Covid pandemic, initially foreseen in August, was unconstitutional. Abiy did not concede to those elections. On 24 October, a change of commander should have taken place in the Northern Command; half of the Ethiopian Defense Forces depend from him. The commanding officers, many of them Tigrinians and with sympathies towards the TPLF, refused to welcome the new commander. As always, an excuse, an armed attack by the TPLF on an Ethiopian military base, prompted Abiy’s response, who therefore ordered airstrikes in order to dismantle the Tigray region’s government.

The military escalation immediately initiated a process that inevitably led towards a civil war (like the one from 1974-1991) which has strong possibilities of destabilizing the entire Horn of Africa and nearby countries such as Egypt and Sudan. Moreover, tensions with these two states have increased due to the construction of the GERD dam (Grand Ethiopian Renaissance Dam), which Ethiopia wants to complete even without having reached an agreement with Sudan and Egypt regarding the exploitation of the water resources of the Nile River.

Nowadays the humanitarian situation is a disaster: the government accuses the TPLF of employing drugged child soldiers and, on the other hand, the Tigrinya people and Eritrean refugees raped, tortured, massacred and subject to mass executions. All of them employed, along with hunger, as weapons of a war with the features of genocide. An immediate solution must be found to face 6.8 million civilians in dire need of food, 70,000 refugees in Sudan, 2.2 million internally displaced persons, 80% of health facilities looted, tens of thousands of civilians massacred and dozens of thousands of raped women and girls (Data source: Twitter account Tigray Italy).

The U.S. Department of State has initiated a legal process to determine whether the news of the mass executions and rape are indeed a clear sign of ongoing genocide, that is, the will to “destroy, in whole or in substantial part, a national, ethnic, racial or religious group”. A declaration of genocide would mean that that war is no longer an internal event; it is something that affects humanity as a whole and could, therefore, also justify an external intervention.

In the meanwhile, U.S. President Joe Biden has signed an executive order imposing sanctions on all criminals, from every faction, perpetrators of war crimes and crimes against humanity since the start of the war in Tigray. In addition, there will also be a reform and an update regarding the legislation on the arms embargo towards Eritrea and the inclusion of the same rules regarding Ethiopia. This is a clear pressure from the United States towards the respect of human rights, to allow access for humanitarian convoys to Tigray and to try to bring together, at the peace table, all the parties involved, including Eritrean troops and Amara militias that are supporting the Ethiopian army.

Like the United States also the European Union asks for firmness, in an international framework in which Prime Minister Abiy has preferred the support from emerging powers rather from them; countries such as Turkey, Russia or Somalia that have little concerns towards human rights. In this context, Italy must not stand by and watch, nor limit itself to only attempting to send emergency convoys. The unity and stability of Ethiopia, the Horn of Africa and the entire Region are at stake.

Significant political initiatives are also needed such as, for example, suspending the collaboration agreement in the defense sector that I signed, and was later put into force while we were beginning to realize the way the country was heading. It is not enough to simply encourage dialogue, we need a real – composite – initiative for peace. The Ethiopian society present in Italy is asking for it and our humanity demands us to do so.

This article in Italian

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Occorre fare di più per fermare il genocidio in Etiopia

In Etiopia si sta consumando una catastrofe umanitaria in seguito a una guerra di cui in Italia si parla troppo poco

L’antefatto

Il 16 settembre 2018 il mondo ha esultato quando, dopo 20 anni di guerra, l’incontro tra il primo ministro Etiope Abiy Ahmed e il dittatore eritreo Isaias Afwerki è stato il segno dello scoppio della pace tra i due Paesi che sono stati per un breve periodo colonie italiane.

Il primo Ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed (sin) con il ministro degli Esteri eritreo Osman Saleh Mohammed (dx) all’arrivo per i colloqui di pace. Aeroporto internazionale di Addis Ababa, Etiopia, 26 giugno 2018. (Photo by YONAS TADESSE / AFP/Getty Images)

Per questa pace e per aver annunciato che avrebbe varato riforme liberali in economia e politica e, quindi, dato concrete prove di voler rafforzare la democrazia, Abiy ha ricevuto il Nobel della pace nel 2019.

Un premio arrivato un po’ presto ma che rifletteva l’entusiasmo per questa nuova fase che doveva segnare un momento di stabilizzazione per tutto il Corno d’Africa e anche per le relazioni italiane con un’area con la quale manteniamo ancora molti rapporti di vicinanza.

Qui il post che pubblicai in quel periodo. http://urly.it/3fqx8

Sull’onda di questa ventata di riforme i rapporti tra Italia ed Etiopia cominciarono a svilupparsi più velocemente che in passato e io personalmente siglai un accordo di collaborazione nel settore della difesa con l’allora ministro della difesa etiope, Aisha Mohammed Musa.

Con la ministro Aisha Mohammed Musa (sin)

L’accordo prevedeva iniziative di formazione congiunte, trasferimento di conoscenze, operazioni a sostegno della pace, il contrasto al terrorismo e all’estremismo violento; la ricerca e lo sviluppo in ambito militare e la collaborazione in materia di industria della difesa”.

Certo non lo avrei firmato se avessi avuto anche il solo dubbio su quello che invece poi è successo. In quel momento però non avevamo indicatori che ci potessero far presagire il futuro; vedevamo, invece, un Paese che veniva da cinquanta anni di monarchia assoluta, rivoluzioni, guerra civile e autoritarismo, il cui nuovo leader, subito dopo l’arrivo al governo, liberava i prigionieri politici e i giornalisti, apriva ai partiti di opposizione e incoraggiava i ribelli a disarmarsi, terminava con la parola pace una guerra lunghissima con l’Eritrea e prometteva di tenere le prime elezioni libere nel secondo paese più popoloso in Africa.

L’inizio della guerra

A novembre 2020 però il Presidente Abiy ha dato il via a un’offensiva contro le forze del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè) che aveva accusato di perseguire obiettivi insurrezionali e di essere traditrici della patria. Cosa era successo?

Premesso che l’Etiopia è un paese molto frammentato dal punto di vista etnico, i cui nove stati sono divisi su base grossomodo etnico-linguistica. Lo stato di Oromia è il più popoloso, con circa 33 milioni di abitanti. Lo stesso Abiy Ahmed è di etnia Oromo, che è una delle più marginalizzate del paese che, però, dal 1991 non aveva più avuto un Primo Ministro, a differenza dell’etnia tigrina che, benchè rappresentasse soltanto il 6% della popolazione etiope, ha sempre espresso il Primo Ministro in carica.

Ulteriore precisazione per cercare di capire le motivazioni del conflitto è che Abiy vinse le elezioni, dichiarando di voler favorire l’unità nazionale e creare una forte identità nazionale, con il sostegno dell’ “Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF)”, una coalizione di cui il TPLF era parte fondamentale.

Dopo l’elezione però, per consolidare la sua posizione nella coalizione, Abiy creò il il Prosperity party – un partito più facile da controllare, che riuniva tutte le componenti tranne il TPLF.

La crisi con il TPLF si acui dopo che a settembre 2020 il Tigray aveva svolto le elezioni regionali ritenendo incostituzionale il ritardo a causa del Covid delle elezioni nazionali, che dovevano tenersi in Agosto. Abiy non aveva riconosciuto quelle elezioni.

Il 24 ottobre doveva avvenire un cambio di comandante nel Comando del Nord, dal quale dipendono circa la metà delle Forze di Difesa etiopi. Gli ufficiali in carica, molti dei quali tigrini e con simpatie per il TPLF, rifiutarono di accogliere il nuovo comandante.

Come sempre, un pretesto, un attacco armato del TPFL ad una base militare etiope, causò la risposta di Abiy che ordinò attacchi aerei con lo scopo di sciogliere il governo della regione del Tigray.

Da subito l’escalation militare ha avviato un processo che è andato ineluttabilmente verso una guerra civile (come quella del 1974-1991) che ha forti possibilità di destabilizzare l’intero Corno d’Africa e i Paesi più vicini come Egitto e Sudan, con i quali le tensioni sono aumentate a causa della costruzione della diga di Gerd (Grand Ethiopian Renaissance Dam), che l’Etiopia vuole portare a compimento anche senza aver raggiunto con Sudan ed Egitto un accordo sullo sfruttamento delle risorse idriche del Nilo.

La situazione umanitaria

Oggi la situazione umanitaria è disastrosa, con accuse da parte del governo al TPLF che utilizzerebbe bambini soldato dopo aver dato loro una droga, e dall’altra parte il popolo tigrino e i rifugiati eritrei, fatti oggetto di stupri, torture, massacri ed esecuzioni di massa, usati, insieme alla fame, come armi di una guerra che ha tutte le caratteristiche di un genocidio.

Cfr: http://tommasin.org/blog/2021-09-05/i-cadaveri-galleggiano-lungo-il-fiume-segni-di-genocidio-in-tigray

Di fronte ai 6,8 milioni di civili hanno un disperato bisogno di cibo, ai 70.000 rifugiati in Sudan, ai  2,2 milioni di sfollati interni, all’80% delle strutture sanitarie saccheggiate, alle decine di migliaia di civili massacrati e alle decine di migliaia di donne e bambine stuprate (Fonte dati: Account Twitter Tigray Italy) occorre trovare una soluzione immediata.

L’attenzione internazionale

Il Dipartimento di Stato USA ha avviato un processo legale per stabilire se effettivamente le notizie delle esecuzioni di massa e degli stupri siano il segno evidente di un genocidio in atto, ovvero, della volontà di “distruggere, in tutto o in parte sostanziale, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Una dichiarazione di genocidio vuol dire che quella guerra non è più un evento interno, è qualcosa che colpisce l’umanità intera e potrebbe, quindi, giustificare anche un intervento esterno.

Intanto il Presidente americano Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo per imporre sanzioni a tutti i criminali, di ogni fazione, autori di crimini di guerra e contro l’umanità, dall’ inizio della guerra in Tigray. Ci sarà inoltre anche una riforma ed un aggiornamento riguardo alla normativa sull’embargo di armi verso l’Eritrea e l’inserimento della stessa norma riguardante l’Etiopia.

Una evidente pressione degli Stati Uniti per il rispetto dei diritti umani, consentire l’ accesso dei convogli umanitari al Tigray e per cercare di far convergere su un tavolo di dialogo tutte le parti in causa incluse le truppe eritree e le milizie Amhara che stanno supportando l’esercito etiope.

Come gli Stati Uniti anche l’Unione Europea chiede fermezza (qui un approfondimento http://www.settimananews.it/informazione-internazionale/unione-europea-sulla-situazione-in-etiopia/ ) nel delinearsi di un quadro internazionale nel quale Il Premier Abiy ha preferito al supporto di Stati Uniti e UE quello di potenze emergenti, poco preoccupate dei diritti umani, come la Turchia, la Russia o la Somalia.

In questo quadro l’Italia non deve restare a guardare, nè limitarsi al solo tentativo di inviare convogli emergenziali. Ne va dell’unità e della stabilità dell’Etiopia, del Corno d’Africa e dell’intera regione.

Occorrono anche gesti politici significativi come, per esempio, sospendere quell’accordo di collaborazione nel settore della difesa da me firmato e reso esecutivo più tardi, quando già si cominciava ad intravedere la strada che stava prendendo il Paese.

Non basta favorire il dialogo, occorre una vera e propria iniziativa – composita – per la pace. Ce lo chiede anche la società etiope presente in Italia e ce lo obbliga la nostra umanità.

Quest’articolo è stato pubblicato su Formiche: https://formiche.net/2021/09/etiopia-guerra-crisi-italia/

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